Antonio Gramsci
Ales (Oristano) 1891 – Roma (1937)
Vita e opere
Antonio Gramsci nacque, quarto di sette figli, in una famiglia di condizione piccolo-borghese, che presto cadde in disgrazia a causa della condanna a cinque anni di carcere del capofamiglia, Francesco, per peculato. Antonio frequentò a Santu Lussurgiu le ultime classi ginnasiali nel 1905-8 e quindi, nel 1908-11, il Liceo Dettori a Cagliari. Nel 1911, grazie alla vincita di una borsa del Collegio Carlo Alberto, si iscrisse al corso di Lettere dell’Università di Torino, non riuscendo però a laurearsi sia per le precarie condizioni di salute, sia perché dal 1914 la sua attenzione fu progressivamente assorbita dalla militanza nel PSI e dall’attività di giornalista (come collaboratore de «Il Grido del Popolo» e della pagina torinese dell’«Avanti!»). Nel 1921 partecipò alla fondazione del PCd’I, di cui diresse il quotidiano «L’Ordine Nuovo». Nel maggio 1922 partì per Mosca, dove rimase fino al novembre 1923 come rappresentante del PCd’I presso l’Internazionale comunista. Si trasferì quindi a Vienna e da lì, nel maggio 1924, tornò in Italia, perché eletto deputato al Parlamento. Quindi, nel gennaio 1926, in occasione del terzo Congresso del partito, tenuto a Lione, ne divenne segretario generale. Nonostante l’immunità parlamentare, la sera del 26 novembre 1926 fu arrestato, insieme a numerosi altri esponenti di partiti politici di opposizione al governo di Mussolini, e dopo qualche giorno inviato al confino sull’isola di Ustica. In seguito trasferito a Milano, fu processato insieme all’intero gruppo dirigente del PCd’I a Roma nel maggio-giugno 1928 dal Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato. Dopo la condanna a più di 20 anni di carcere fu assegnato alla Casa penale di Turi di Bari, dove trascorse quasi cinque anni e mezzo, dal luglio 1928 al novembre 1933, quando fu trasferito – in seguito al grave peggioramento delle sue condizioni psico-fisiche – alla Clinica “Cusumano” di Formia, da dove nell’agosto 1935 si spostò alla Clinica “Quisisana” di Roma, dove morì il 27 aprile 1937 per emorragia cerebrale. Nell’ottobre 1934 aveva ottenuto la libertà condizionale, misura che aveva avuto termine una settimana prima della morte.
La vita di Gramsci è segnata da tre fondamentali esperienze storiche, che costituiscono il serbatoio e il particolare angolo visuale della sua lettura della realtà del Novecento: la guerra mondiale, la rivoluzione di Ottobre e il fascismo, come momento fondamentale della ricostruzione dell’egemonia borghese nel dopoguerra europeo. Tutta la sua formazione va interpretata alla luce del bisogno di forgiare strumenti capaci di fare presa su questa nuova realtà e mettere in grado le classi subalterne di intervenire in essa in modo, per la prima volta, protagonistico. Così, la cultura assorbita nella Torino della sua formazione universitaria e poi durante l’esperienza giornalistica – con la riforma intellettuale e morale neo-idealistica di Croce e Gentile, le nuove riviste con il loro portato di pragmatismo e di motivi irrazionalistici –, come quella marxista e comunista costruita negli anni seguenti, fino all’elaborazione, nei Quaderni del carcere, di una teoria degli intellettuali e dello Stato moderno: tutto ciò va visto dal punto di vista dell’esigenza di elaborare una concezione capace di assecondare la spinta delle masse subalterne verso la costruzione di un proprio progetto egemonico.
Il pensiero filosofico-religioso
L’interesse di Gramsci per il fatto religioso è vivo fin dai primi anni torinesi. Per darne una lettura corretta, è indispensabile collegarlo a quanto detto sulle esperienze fondamentali, la guerra, la rivoluzione e la crisi dell'egemonia borghese e la sua ricostruzione negli anni Venti e Trenta. È alla luce di questi profondi ed estesi rivolgimenti storici, che rivela tutta la sua importanza la religione, da Gramsci intesa sia come insieme di credenze capaci di organizzare la visione del mondo delle grandi masse della popolazione, sia come fede profetica nella realizzazione di un determinato futuro in una prospettiva di lotta contro un avversario da affrontare in un'ottica totalitaria e non meramente parziale.
Questo approccio, che si può definire “storico-politico” e pienamente immanentistico, affonda le proprie radici nella concezione rinascimentale della religione come insieme di miti accessibili alle moltitudini e il cui contenuto è la vita buona e giusta. A differenza però di autori come Machiavelli o Bruno, per Gramsci questa concezione della religione non ha la funzione di difendere l’autonomia del dotto o di produrre l’obbedienza al comando del sovrano, ma di rendere possibile un’unificazione politica dell’“intelligenza” e della “massa”, cioè delle polarità alle quali tradizionalmente si è assegnata la funzione della “critica” e, rispettivamente, della “fede” fanatica e cieca.
Nel periodo torinese la religione è pertanto messa a fuoco anzitutto come un tentativo “spontaneo” di reagire ai terribili scossoni della storia, conferendo una forma di coerenza a un quadro percorso da profonde trasformazioni, e al contempo come strumento, in mano alle classi dirigenti, per mobilitare le masse e spingerle all’azione. La guerra e la rivoluzione fanno emergere in piena luce il carattere decisivo della religione intesa in questo senso. Ed è infatti in questo periodo che Gramsci inizia a riflettere sulla storia religiosa dell’Europa moderna come una secolare disputa per il controllo ideologico delle masse contadine, cioè della nazione. In un articolo del 1916, Il Sillabo ed Hegel, egli individua nell’eresia protestante l’avvio di un processo di secolarizzazione, che partendo da Lutero e passando per Hegel potrà, grazie alla feroce lezione di Realpolitik di massa impartita dalla guerra mondiale, diventare presto un patrimonio comune dell’intera Europa. Il processo di secolarizzazione non viene però interpretato da Gramsci come la scomparsa della religione, ma la sua sostituzione da parte di una Weltanschauung laica, che egli definisce anche come una fede: «In verità, ogni uomo ha una sua religione, una sua fede che riempie la sua vita e la rende degna di essere vissuta».
È evidente che dietro queste affermazioni c’è la lezione di B. Croce, il quale aveva contrapposto la filosofia alla religione, ma allo stesso tempo aveva esteso la fede a comprendere «ogni pensiero» il quale, «pensato che sia, si fa fede, ossia da divenire passa a divenuto, da pensato a non pensato, da dinamico a stabile o statico» (Religione e serenità, 1915, p. 153; ma si veda anche Fede e programmi, 1911). Religione e fede iniziano ad acquisire connotazioni che esorbitano dalla sfera confessionale, e che saranno formalizzate nel concetto di «religione» come unità di concezione del mondo ed etica conforme, plasmato dal filosofo abruzzese in particolare nella Storia d’Europa nel secolo decimonono, del 1932. All’altezza del 1915, è piuttosto la fede che vede un’estensione del suo campo semantico, a comprendere qualsiasi sistema di convincimenti che spinga all’azione e che sia impermeabile alla critica razionale. Dietro Croce c’è evidentemente la nozione pragmatistica di Belief, e sopratutto la rilettura che di questo concetto aveva fatto Georges Sorel, forgiando la nozione di «mito» da lui consegnata alle Réflexions sur la violence, pubblicate nel 1908 e l’anno successivo tradotte in italiano su sollecitazione di Croce (che ne firmò anche l’introduzione).
Identificando fede e religione, nel 1916 Gramsci sembra appoggiarsi proprio su Sorel, che aveva paragonato enfaticamente il socialismo al cristianesimo primitivo e aveva visto nel mito la realizzazione concreta, storica, dell’ideologia in quanto essa non è la dissimulazione dei rapporti reali (secondo la vulgata marxista), ma la loro attiva trasformazione, in quanto spinge all’azione masse sterminate. Tutti questi temi torneranno nei Quaderni del carcere, dove, grazie anche alla già rammentata ridefinizione crociana della religione intesa in senso non mitologico, Gramsci vedrà nello stesso marxismo una “religione”, proprio in quanto esso è un “concezione del mondo” e non una “scienza”. La critica marxista della religione diventa perciò allo stesso tempo un’auto-critica del marxismo stesso. In quanto il marxismo è una “religione”, esso partecipa a pieno titolo al conflitto religioso che percorre la modernità, nel senso che esso, come le religioni tradizionali, si rivolge alle masse e tenta di dare una risposta alla loro richiesta di coerenza tra pensiero e azione. Tuttavia la risposta del marxismo dovrà essere non solamente diversa e originale, ma dovrà anche collocarsi su di un piano del tutto nuovo. Infatti tutte le religioni hanno dato una risposta confessionale a quella esigenza di coerenza, cioè una risposta teorica, perché riassunta in una qualche “ortodossia”. In questo modo, esse hanno “bloccato” l’energia che da quella richiesta di coerenza proveniva, riducendola a una forma culturale determinata e indiscutibile.
Se il marxismo è non solamente una nuova filosofia, ma una filosofia che rinnova da cima a fondo il modo stesso di fare filosofia, perché si propone come una filosofia di massa, che è non solamente elaborazione individuale ma prassi collettiva, volontà politica organizzata – in un’espressione: una «filosofia della praxis» – esso non potrà proporsi come una nuova «ortodossia», che si sostituisca alle vecchie credenze religiose. Al contrario, esso dovrà fare della mancanza di un’ortodossia già scritta un suo punto di riferimento costante. L’ortodossia dovrà essere ridefinita come la coerenza della filosofia della praxis con sé stessa, cioè con l’esigenza di essere autonoma e indipendente da qualsiasi altra concezione del mondo. Questa coerenza con sé stessa può essere trovata solamente se l’identità del marxismo non è cercata in una qualche “teoria”, ma precisamente in quella unità di teoria e pratica (quella ricerca del “senso”) che è alla base di tutte le “religioni”.
La critica della religione non è dunque qualcosa di fondamentalmente differente dalla critica della mentalità popolare: senso comune, folklore, utopie popolari sono altrettanti luoghi in cui si articola questa mentalità e che porta scritto dentro il proprio stesso carattere di disomogeneità e disgregazione il carattere subalterno delle masse popolari, e riflette pertanto al contempo, per contrasto, l’esistenza di una mentalità, cioè di una “religione” delle classi dirigenti, connotata da un alto grado di coerenza e unitarietà. Ne segue anche che la questione della lingua, in particolare l’unificazione linguistica della nazione diventa decisiva proprio dal punto di vista della storia religiosa della modernità. In base a tutto ciò, la critica della religione non si presenterà più come la contrapposizione di una visione del mondo immanentistica o materialistica a una trascendente e fideistica, ma come la necessità di scegliere tra due tipi di fede, uno eteronomo e non scelto, l’altro poggiante sulla capacità – da acquisire mediante un apprendistato arduo e sempre a rischio di essere “spezzato” – di mettere in discussione criticamente i propri pregiudizi, conquistando individualmente e collettivamente la capacità di diventare protagonisti della storia, il che vuol dire autori di un determinato progetto egemonico.
Fabio Frosini
Bibliografia
Opere principali
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